Mai come in questo periodo in cui la natura sembra ribellarsi
- con manifestazioni drammatiche - contro i soprusi perpetrati nel tempo dalla
mano dell’uomo, la ricerca artistica di Piero Racchi risulta attuale. In
“natura e artificio”, che appartiene a una serie di opere dal medesimo titolo,
la Natura tenta di riconquistare terreno a discapito dell’Artificio attraverso
l’azione espansiva della vegetazione, che copre progressivamente la superficie
metallica del marchingegno meccanico. L’azione di rivalsa da parte della Natura
non assume però le forme della catastrofe, bensì quelle della rinascita, della
riappropriazione dell’habitat peculiare e questo grazie all’uso da parte
dell’artista di colori vivaci, brillanti, resi tali dalla verniciatura che
simula la levigatezza e la lucidità della porcellana. L’azione di penetrazione
della vegetazione acquista forza ed evidenza grazie al ricorso a una tecnica
polimaterica in cui si fondono elementi naturali e artificiali. Il discorso
dell’opera di Piero Racchi finisce così per trascendere la riflessione sul
rapporto tra uomo e natura sconfinando in un ragionamento sul significato
stesso dell’arte. Arte, il cui scopo è da sempre quello di riprodurre la
natura, in maniera più o meno mimetica a seconda delle epoche storiche. Arte,
la cui etimologia latina ars ci richiama ai concetti di mestiere, abilità,
perizia, che sono gli strumenti con i quali l’uomo tenta di ricreare la natura
attraverso la simulazione, l’ “inganno”, ancora ars in latino. La
pitto-scultura di Piero Racchi dichiara quindi la centralità del rapporto
uomo-natura non solo nella nostra esistenza quotidiana, ma anche relativamente
al ruolo dell’arte, il cui fine primo è quello di far maturare la
consapevolezza del senso della vita stesso. “natura e artificio” risulta un
forte monito a un senso di responsabilità nonché un gioioso auspicio di una
rinascita della natura, perché è ormai chiaro che gli ingranaggi del meccanismo
progettato dall’uomo si sono inceppati.
Chiara Salanti
L’arte moderna ormai ha battuto tutti i
sentieri della libertà creativa, sia con i bagagli della buona fede, sia con
quelli della truffa. Difficile comunque stupirsi dopo tutto quello che abbiamo
visto, e qualche volta subito, nell’ultimo mezzo secolo, anche se ogni sforzo
degli “artisti” è rivolto alla novità, meglio se provocatoria, anche se
cretina.
Con Piero Racchi il nuovo riesce a non
essere banale, a non suscitare reazioni d’indifferenza o di saturazione,
persino in chi è rimasto al concetto di arte come trasmissione d’emozioni. Già
al primo contatto, le sue creazioni danno una sensazione di piacevolezza, sia
per le forme che per i colori e quindi mettono a proprio agio anche chi non è
mai stato convinto della necessità di contraddire l’estetica per fare arte. Una
delle tante tesi balorde e strumentali circolate negli anni della ricerca del
nuovo tout court.
Davanti alle sue opere ci si sente
condotti in un’epoca senza tempo: potrebbe essere tra duemila anni, oggi o ai
tempi degli Assiri e dei Babilonesi in Mesopotamia. I suoi totem potrebbero
essere le colonne della favolosa Atlantide inghiottita dall’immane cataclisma,
quelle distrutte e sommerse della biblioteca di Alessandria d’Egitto, custode
di tanti documenti della cultura pagana o le pareti della sala da ballo del
Titanic. I templi degli Aztechi vinti dalla foresta avrebbero su di noi lo
stesso effetto. Potrebbero anche essere le colonne del Bernini di piazza S.
Pietro tra duemila anni. Chissà!
È inevitabile dopo queste prime
impressioni, essere spinti a riflettere su concetti universali, quali la
caducità della nostra vita e la continuità della Natura, la vanità delle nostre
infinite beghe e la straordinaria forza dell’ “a livella” come la chiamava
Totò: il processo riproduttivo universale per cui da ogni fine inizia un nuovo
ciclo vitale. Quella congerie di scrap,
come la definirebbe un critico USA, raccolta con cura collezionistica da Piero,
da un fondo di cassetto di laboratorio o da una miserabile discarica,
rivitalizzata com’è, può essere degnamente posta in un salone elegante o
nell’atrio di un’impresa, attenta al design ed alla propria immagine. In
pratica una vera e propria azione non illusionistica, ma realmente magica.
La mostra aperta in quell’antro suggestivo
di Palazzo Chiabrera non è che una riduzione dimensionale della tematica di
Racchi appena descritta. Le mini opere esposte sono le tessere di un mosaico
che se opportunamente accostate possono moltiplicare il piacere visivo e ludico
mantenendosi, comunque, coerenti con il tema naturalistico-creativo di fondo.
La non trascurabile caratteristica di essere alla portata di chiunque e la loro
adattabilità a qualsiasi ambiente costituiscono un ulteriore stimolo, per chi
le apprezza, a partecipare al diletto dell’autore, disponendole in composizioni
personalizzate. Si tratta dunque, se vogliamo, di una materializzazione conscia
od inconscia del concetto di Democrazia: possibilità per tutti di fruire di un
bene, trarne piacere e goderne in continuità, parteciparne e trasmettere la sua
ammonizione naturalistica e rivitalizzante.
Il fatto più importante però, oltre al
contenuto” filosofico” ed alla tecnica “orafa”, è il viaggio che la vista dei
lavori di Racchi, dopo la trasformazione sicuramente artistica dell’Autore, ci
permette di compiere pur fermi in un qualsiasi locale dove si svolge una sua
mostra. È il viaggio dell’anima, della fantasia, dell’arte in definitiva. Quel
viaggio che dal mondo esterno, coinvolgendo i nostri sensi, giunge alla parte
più intima di noi provocandoci piacere o dolore.
A mio avviso con Racchi e le sue
“invenzioni” il processo si verifica e, fatto di notevole valore, è un cocktail
coinvolgente di entrambe le emozioni. Questo risultato, raramente
raggiungibile, ha anche un meno percepibile ma sicuro effetto “politico”,
mostrando le possibilità della singola umana sensibilità, con una sorta di
metempsicosi che è esattamente il reciproco di ciò che, di fatto, accade nel
nostro Paese. Qui, appunto, anziché il rinnovamento e la rivitalizzazione si
celebrano i riti dell’abbandono e della contaminazione distruttiva,
rispettivamente del più grande patrimonio d’arte e di uno degli ambienti più
belli del pianeta. Da queste opere, dunque, ci giunge una severa ammonizione
della Natura, come per ricordarci che i guasti, le macerie provocate dal nostro
assurdo, egoistico e megalomane agitarci per i quattrini e le cose banali, sono
autolesionistici. Per ammonirci che il nostro incosciente, irrimediabile
vizio di consumare, gettare rifiuti ovunque e distruggere senza necessità, alla
fine non lascerà neppure un’infima traccia di noi, risucchiato come sarà,
tutto, dalla forza inarrestabile della Natura. Se non sarà la Natura terrena,
stremata dai nostri attacchi, sarà quella astrale. Quella che immobile ma
presente e silente, osserva il nostro stupido, colpevole scempio.
Più che un pittoscultore, come ama
definirsi, Racchi, dunque, è un “rivitalizzatore artistico-profetico”.
Alfredo
Pellegrini
La domanda
che Racchi sembra essersi posto in termini risoluti è quella di come si possa
ancora, nella concitata realtà del mondo moderno, teatro della sconvolgente
rivoluzione industriale, continuare, a dipingere o scolpire, fingendo che nulla
sia accaduto. L’arte di Piero, comunque la si voglia vedere, è legata ad
un’azione di frontiera, operata per allargare la visione del mondo o per
insinuare dubbi sul contenuto, per formulare tecniche innovative, non
progettuali. Di frontiera, ai margini, ai bordi, come spetta a chi non ha il
compito di ripetere il già visto ma di invitarci a cercare e sentire quello che
ancora non conosciamo. Il tema conduttore è il rapporto arte-natura-artificio
che ci accompagna in una fantastica passeggiata, occasione di incontri
incantati e silenziosi sul filo della memoria e di oniriche visioni: è la
materia la vera protagonista, una materia povera e ferita che trova nei colori
la forza di rinascere. Pare quasi che le opere di Racchi vivano un’esistenza fittizia
come fossero diapositive proiettate sui muri o oggetti che, per una specie di
magia animistica, presiedano a un mondo e a una vita propria.
Si tratta
sempre di suscitare, nella persona che guarda l’opera, l’impressione che una
logica strana ne abbia diretto l’esecuzione: un inconsueto criterio che obbliga
alle più inattese soluzioni e, nonostante gli ostacoli che crea, produce sorprendenti
risultati. Come Oldenburg, Piero sembra aver sperimentato il concetto di
dislocazione: le sue creazioni, infatti, stanno sospese tra il regno della
pittura e quello della scultura. A modo suo egli narra chimeriche storie: la
sua opera è fatta di stratificazioni, di temi e motivi che si accavallano, si
incrociano, magari si annullano a vicenda, ma finiscono sempre per dar luogo a
qualcosa di nuovo e di imprevedibile. La genesi, la nascita, la crescita avvengono
in uno stato di sogni ad occhi aperti. Avventurarsi nella natura di Racchi significa
correre il rischio di essere completamente presi nel groviglio di germinazioni spontanee
dai colori irreali, immerse in una luce brillante, fredda ed artificiale.
Piero, con
inalterata sensibilità, continua, comunque, a voler sperimentare, scoprire: permane
il bisogno istintivo di esprimersi, di dare corpo alla produzione incessante di
apparizioni che popolano il suo universo immaginativo e i suoi labirintici
percorsi.
I colori
dispensano un’impronta di magica fioritura, a volte inquietante, e hanno una
fondamentale importanza fino a diventare, nel loro ruolo di collanti, veri e
propri protagonisti, riuscendo a dare campo a speranze e paure, in cui c’è lo
spazio per tutto e tutto appare possibile. Essi ricoprono i suoi assemblaggi,
le sue proliferazioni, con un velo lucido dall’effetto porcellanato; il gusto
del paradosso fornisce lo spunto per pensare a Piero come a un novello Luca
della Robbia, improvvisamente calato in un’atmosfera extraterrestre senza
tempo.
Soprattutto
attraverso la scultura l’artista incontra realtà concrete, pezzi scartati con
la loro storia, raccolti e combinati che lo chiamano dal loro vissuto, pronti a
meravigliose trasformazioni. Si tratta di materiali trovati per caso o
scrupolosamente cercati, che, nella nuova fusione, acquistano la dignità di
piccoli monumenti. Nel suo lavoro la polemica ecologista contro la mole sempre
più soffocante degli oggetti che vengono gettati via si sposa con l’idea
schwitteriana della riqualificazione estetica delle cose inutili, non più in
uso.
Tutto
allude sempre a un qualcosa di enigmatico, straniante e, questo, in genere, non
è conseguenza soltanto del processo alchemico della forma, quanto dell’alchimia
del gesto, nel senso che l’opera è l’espressione immediata dei movimenti
dell’essere e il luogo di inaspettate metamorfosi.
Se
l’alchimia, dunque, è in grado di diventare strumento di indagine e di conoscenza,
può, a buon diritto, essere avvicinata all’opera di Racchi, nella misura in cui
l’opera stessa è una continua ricerca di libertà, nell’arte e nella vita. Quella
libertà che Piero concede allo spettatore che, decifrando e interpretando,
aggiunge il proprio contributo al processo creativo.
Arturo
Vercellino
Ricordate "2001: odissea nello spazio,
il film cult degli anni settanta, le scimmie antropomorfe atterrite e
soggiogate dal monolito levigato che occupa ossessivamente lo schermo e la
fantasia, nella sequenza iniziale? A me è venuto da pensarci, da sentirlo
angosciosamente evocato ed allusivo, davanti ad una delle opere (sculture?
aggregazioni? ectoplasmi?) di questo bizzarro ed inquietante Stregone che, alle
falde del monte omonimo, turba i sonni e stimola le sonnacchiose fantasie della
città termale.
Si può
essere in parte d'accordo sulla valutazione, sui meriti artistici di Piero
Racchi, ma una cosa è certa: usciti da una delle sue mostre o dal suo atelier
(ma no: laboratorio, officina, fucina) non si resta mai indifferenti, qualcosa
te lo trascini dietro, come un sogno o un presentimento, una rivelazione
illuminante o maligna. Fabbro o alchimista, Prospero o Cagliostro, Piero ha
comunque al suo servizio la grama, rozza animalità di Calibano e la onirica
grazia di Ariele. Il suo comporre su una rigida forma elementare (cubo,
parallelepipedo, sfera) una proliferazione di vite straziate e strazianti; il
trarre da una geometrica cornucopia i mostri che la realtà ha conteso al sogno;
la scoperta del ventre molle - fitto di abiezioni e aberrazioni, sotto l'apparente
legalità - della tecnica e del prodotto scientifico: tutto ciò ha il sapore - e
credo il valore - di un esito catartico, come di chi esorcizza il male
denunciandone senza ritegno le proliferazioni più allucinanti. Si direbbe così,
con il Goethe del dopo - Werther, che noi, e con noi l'autore, " come dopo una confessione generale" ci
sentiamo "liberi, col diritto ad una
vita nuova": una vita nuova che però, nel nostro caso, ha da tener
conto di quegli scheletri e di quegli incubi, per riscattare le forme della
natura ad un miglior destino. L'arte di Racchi si giova, per questo, della
funzione del colore, un colore che penetra, avvolge, vela, si stempera nelle
forme rimorte della natura e dell'homo sapiens. Il colore, condizionandole, in
certo modo annulla le forme, le spiritualizza, le assorbe in un'altra orbita e
in uno spazio dilatato che c'è consentito di intuire appena.
La golosità di vita che caratterizza Racchi,
il suo proteiforme operare nel campo dell'arte figurativa, della musica, della poesia,
conducono ad un fatale esito dispersivo; e tuttavia è qui che, singolarmente,
proprio nel disordine, nella multiforme epifania dei lacerti di vita e di
materia, l'artiere trova la sostanza migliore per costruire ed esprimere il
disgusto e la disperazione, l'ansia e il rovello, ma anche la fondamentale
tensione etica ad un che di altro, che riproponga l'istituto della creazione,
non più dal nulla, ma dal recupero (
possibile?… certo, è tutto da vedere, da sperimentare) della macerie della
terra desolata.
Riccardo Brondolo.
I veri viaggiatori - diceva
Baudelaire - sono quelli soli che partono per partire, senz’avere né meta né
ragione. E si avventurano, temerari, nell’ignoto, anche a costo di naufragare,
fidando nel loro estro di visionari. Come i cavalieri erranti del medioevo che
s’inoltravano nella foresta, a caso: tanto sapevano che prima o poi qualcosa
sarebbe accaduto. Così anche Piero Racchi, artista a suo modo unico e
poliedrico, che trascorre con disinvoltura dalla poesia al romanzo, dalla
musica all’arte figurativa, raggiungendo nell’ambito plastico-pittorico esiti
di grande originalità e di sicuro rilievo. La selva in cui egli si muove è il
mondo stravolto dalla tecnologia e dal consumismo, dove la natura, straziata e
mortificata, sembra relegata a un ruolo ancillare. L’artificiale domina
incontrastato, disseminando però la terra di liquami e di spazzatura. Di ruderi
e di macerie. L’uomo stesso è ormai prigioniero della “gabbia d’acciaio” da lui
forgiata: una gabbia che assume a tratti le sembianze di una locomotiva
impazzita, che procede a velocità folle in una notte fosforescente di luminarie
innaturali. La prospettiva è ovviamente la catastrofe, divinata da Racchi con
lucidità di veggente. La selva diventa una sorta di labirinto dove, a ogni
svolta, s’incontrano i mostri prodotti dal sonno della ragione. A ogni passo è
lo scialo. Scarti, relitti, rifiuti ingombrano il sentiero. Sunt lacrimae rerum. La natura piange,
alla stregua del “ciarpame reietto” su cui si fonda il duplice trionfo della
moda e della tecnologia. Qui il serpente si morde davvero la coda: la moda
divora ogni giorno se stessa, la tecnologia si nutre della propria
obsolescenza. Si rinnova così il mito di Crono che ingoia i suoi figli. È la
parabola - oscena - della modernità.
Ma se l’apocalisse è un destino che
affolla di incubi e di sogni premonitori l’inquieta veglia di Racchi, egli ne
fa pure la sua musa
ispiratrice.
Non solo perché, da buon samaritano, si sofferma a contemplare pietoso i guasti
e le lacerazioni provocati dal “sistema” - per dirla secondo il lessico
sessantottino -, a raccogliere per via, tra le scorie e le deiezioni che si
affastellano a cielo aperto nei cimiteri di macchine, le povere reliquie, inani
e inanimate, di tanto scempio - i suoi “ossi di seppia” -, sì anche perché si
azzarda a riciclarle, a ridare loro una dignità, un senso (che forse non hanno
mai avuto), inserendole, come tessere di mosaico o, meglio, come cellule di un
organismo a suo modo vivente, in un progetto artistico che non ha nulla di
premeditato, ma che sono esse stesse a suggerire, a proporre, a indirizzare. Non
si tratta tanto - sulla scia di Kurt Schwitters - di riqualificare
esteticamente oggetti inutili e desueti, siano essi vilipesi cascami della
tecnologia o rimorti lacerti di natura, quanto di insufflare in essi una nuova
vita. L’operazione ha in sé qualcosa di artificiale, ma, a ben guardare, va in
direzione opposta a quella seguita dal progresso tecnico-scientifico, che tende
a sostituire la macchina all’uomo e l’inorganico all’organico. Il sogno di
Racchi non è quello faustiano di dominare la natura, ma, se mai, quello
prometeico di salvaguardare l’umanità, rivendicandone il carattere, appunto,
“naturale”. Non è rescindendo le radici dalla terra o, peggio, stuprandola e
sfregiandola, senza ragione e senza misura, che l’uomo può sperare di vivere
meglio. La vita è una sola e affonda le sue radici nella natura.
L’arte di Racchi è sì teknē, alla lettera, ma nulla ha della hybris della moderna tecnologia. Essa
nasce infatti dal rispetto per le cose, anche le più umili, e si mette al loro
servizio. Il messaggio che ne deriva non è dunque volontaristico, viziato da
una soggettività ridondante. Anzi, non è nemmeno premeditato, essendo in gran
parte espressione dell’inconscio, di una forza che trascende cioè gli angusti
confini dell’io e, forse, della stessa persona. Parlare di assemblaggi potrebbe
allora apparire riduttivo, in quanto le pitture-sculture di Racchi sono in
realtà delle concrezioni viventi, le quali sembrano autogenerarsi, in un
assiduo e libero rampollare che ricorda l’inesausta proliferazione delle
madrepore. Rami, radiche, tronchi, semi, valve di conchiglie, felci, pigne e
via enumerando sono i materiali - l’alfabeto, diremmo - di cui l’artista si
serve per svolgere un discorso che, pur nella varietà dei suoi esiti, ha la
perentoria e parossistica ossessività delle fissazioni. Il pianto (e il
rimpianto) della natura si fa urlo disperato di denuncia e di protesta, ma
anche di rivalsa. Essa, infatti, fagocita e assorbe nell’esasperato vitalismo
delle sue metamorfosi anche l’altro-da-sé, le forme e i corpi estranei della
tecnologia, imprigionandoli nella sua ragnatela. L’assimilazione passa
attraverso un sottile e complicato processo di pepsi che finisce per
ridisegnare le forme originarie dei reperti o, meglio, per alterarne - o
abolirne - la funzionalità.
Caos e calcolo convivono in un equilibrio
di contrapposte tensioni, dando vita a efflorescenze fantasiose, a sculture
polimateriche che hanno l’allucinata parvenza di certe chimere. Su tutto si
stende poi, assecondando una tecnica già sperimentata da Claes Oldenberg, la
lucida bava del colore, che congela in una dimensione onirica, fortemente straniata,
le anfibie, ambigue “visioni” dell’artista. Un cromatismo algido e acceso ne
investe i particolari e fa degli objets
trouvés che ne formano il tessuto connettivo tutt’altre cose, tanto più
irreali quanto più all’apparenza individuabili. La patina traslucida che li
impermeabilizza contribuisce a srealizzarli, sottraendoli all’hic et nunc, ma solo per dar forma
ectoplasmatica alle speranze e ancor più alle paure dell’artista. Presagi o
auspici, queste surreali creazioni a metà tra la pittura e la scultura sono
dunque mere proiezioni dell’inconscio (magari di un incoscio in senso hartmanniano)
ed hanno la petulanza un po’ sinistra - e quindi inquietante - degli incubi.
Sono fiori che nascono, montalianamente, dalle macerie dell’abisso, espressione
turbata di un’anima mundi che si
sente minacciata nella sua integrità dalla sfida tecnologica e dalla connessa
volontà di potenza della moderna civiltà delle macchine. Fiori, se non del
male, del malessere che pervade la nostra società. Come ebbe a scrivere Italo
Calvino: “Più le nostre case sono illuminate e prospere più le loro mura
grondano fantasmi; i sogni del progresso e della razionalità sono visitati da
incubi”. Ora, a chi - come Racchi - ha occhi per vedere e orecchi per udire i
segnali d’allarme (l’urlo o - per dirla con Lucrezio - i “latrati”) che
provengono dalla natura non possono certo sfuggire. E da artista qual è se ne
fa audace e puntuale interprete.
Carlo Prosperi
Enigmatica,
multiforme, tentacolare è la scultura polimaterica di Piero Racchi, che plasma
forme complesse, ascensionali; altre volte compare il cerchio, simbolo di
perfezione, cerchio magico per allontanare il male. Mi vengono in mente
incisioni medioevali di maghi che, credendosi protetto dal cerchio che hanno
tracciato attorno a sé, evocano le ombre più infernali. L’arte di Racchi non è
rassicurante, la superficie appare schiumosa, zigzagante; evoca fondali marini,
alghe ondeggianti nell’oscurità di sorgenti segrete. Affiorano conchiglie in
forme floreali. Tre i colori dominanti: un azzurro intenso, tra il blu e il
turchese, un aspro verde-veleno; un nero dilagante e lucidissimo. L’autore da
un significato ambientalista: la natura vuole emergere rigogliosa, mentre il
buio inquinamento la distrugge. Ma il verde rinasce, anche se in tonalità
dissonanti come quelle di Van Gogh, cui ho dedicato una poesia, ecco l’incipit:
“ Vincent,il verde veleno nei tuoi quadri / corrode l’anima, / scarlatto ti
brucia il sangue / di febbre vorticosa “. Anche certe opere di Racchi hanno
piccoli punti rossi che si posano inquietanti. Ciò che racchi ama è agire sulla
materia, concreta, dura, metallica, quando inserisce parti di ingranaggi,
rotelle dentate appartenenti forse a orologi, o fantastiche macchine del tempo.
L’autore desidera creare un’arte non datata, apparentemente astratta, poiché
arduo da decifrare è l’uomo, e il suo pensiero. Le trasformazioni della materia
artistica di Racchi mi evocano i versi della 2 Tempesta “ di Shakespeare: “
Nulla di lui che si perda o vada in rovina, tutto subisce splendente
metamorfosi marina. Le mani diventano coralli, gli occhi perle, tutto si muta
in qualcosa di nuovo e di strano “.
Egle
Migliardi. Poetessa e critica letteraria
Una particolare attenzione nell’utilizzo dei materiali, per
esplicita ammissione dello stesso Piero Racchi: si tratta
di “tutti quadri polimaterici, e per farli uso materiali naturali e industriali
(riciclati)” con inserimenti decorativi che richiamano per lo più la Natura,
una capacità di invenzione di macchine celibi che richiamano alla mente Marcel
Duchamp, di aiuole semimeccaniche dove si instaura un equilibrio dinamico nella
lotta fra la natura e il manufatto industriale, in una atmosfera tra il
metafisico ed il surreale (antica passione mai sopita questa di Racchi),
affermano una volontà di posizionamento dell’opera di Piero Racchi fuori dal
tempo, in una zona dedicata alla meditazione sull’essere e il divenire, di
meditazione, di pensiero. Una attenzione dell’artista allo sviluppo delle
proprie sensibilità, che sono multi laterali e multi culturali, utilizzando
tempi e ritmi secondo natura. In questo si situa la sua originalità di artista
ed il valore intrinseco delle sue opere, frutto di una ricerca personalissima,
rigorosa nel metodo e meticolosa nelle tecniche utilizzate dove la sensibilità
tattile si accompagna a quella visiva, e verrebbe da pensare, allacciandosi
alle sue abilità musicali, anche a sensazioni sonore, musicali appunto. Si ha
l’impressione che queste opere nascano selvagge, tra sassi metallici e
strutture biologiche polimorfe, una volta scomparso lo stato d’innocenza
dell’artista, che però cerca faticosamente attraverso ricordi forse d’infanzia
di rianimare sottigliezze sonore, odori di erbe tagliate e di salso marino, di
giardini innaffiati e di sciabordio di onde. Opere completate da un accompagnamento,
prezioso, arguto ed ironico, gioiosamente ludico che richiama alla mente quanto
scritto in Homo Ludens da Johan Huizinga (1939), in cui si esamina il gioco
come fondamento di ogni cultura dell’organizzazione sociale. L’aspetto
indubbiamente ludico presente in molte, se non tutte, le opere proprio a
partire dalla ricerca dei materiali per finire nella scelta dei colori, sempre
molto accesi, utilizzati; il gioco è andato via via raffinandosi per giungere
ad essere coscienza operativa e professionale, poetica, una attenta indagine
dove la molteplice e multiforme personalità dell’autore, il suo desiderio di
espressione, di testimonianza e di denuncia, l’invenzione di tematiche e lo stile
peculiare, lo rendono un unicum, un caso a parte nel panorama dell’arte
italiana contemporanea. L’artista si salva da uno stato di ansia, presente
nelle sue opere che pure nella loro politezza parlano di inquinamenti e di mutazioni
genetiche, attraverso il ripensamento ludico, gioioso e ironico, in cui
convergono la sua curiosità e fantasia costruttiva, che lo pongono però anche
vicino al mondo reale dell’uomo, quello della produzione industriale che crea
non solo il nostro benessere ma anche, in qualità di scari appunto, i materiali
di base che egli utilizza nei suoi lavori, e come corollario l’inquinamento che
qui, non dichiaratamente, viene evocato. Pero Racchi rappresenta uno degli
artisti, rari ed anomali, che fanno del proprio lavoro un momento di ricerca
compositiva di un mondo in via di estinzione, dove la natura naturata, la
natura naturans, rischia di essere, e spesso lo è, sopraffatta dal dilagare della
natura artificiale (basti pensare alla possibilità di sciare tutto l’anno a
Dubai, dentro una bolla di vetro a -4 °C mentre fuori non sono mai meno di 28°C).
La mia lettura dell’opera dell’artista vede il suo tentativo come quello di chi
cerca di comunicare una inquietudine di fondo sul futuro dell’umanità, facendo
uso della sua indubbia manualità ed intelligenza. Giostrando fra gioco e
denuncia di disagio, tra manipolazioni genetiche che fanno vedere il lussureggiante
mondo vegetale presente nelle opere come se le piante fossero degli organismi cibernetici,
forse dei cyborg naturali, utilizzando tecniche da découpage e di assemblaggio
molto raffinate, con una scelta originale dei materiali utilizzati e dei metodi
di assemblaggio, Racchi appare sempre più artista di rilievo, sotto molti aspetti
ardito innovatore e certo del tutto originale sulla scena dell’arte italiana,
con una sua poetica specifica che risponde ad esigenze personalissime di strutturazioni
e di modulazioni quasi ritmiche, musicali. Esiste in Racchi una curiosità da
archeologo del futuro con una propensione per le forme biologiche, con ricerche
paleoneurologiche. Le sue opere richiamano alla mente “La terra desolata” di T.
S. Eliot e le figure di Wifredo Lam. Oggi memoria, capacità e velocità di
elaborazione, varietà di risultati sono sempre più affidati a macchine, agli
elaboratori elettronici che ormai portiamo in tasca, e che operano con una velocità
tale da rendere sempre più deboli i ricordi della natura, e rafforzando per
contro i segni dell’artificiale che può divenire, attraverso forme raffinate di
rendering, più vero del vero trasformando il virtuale sempre più in reale,
l’artificiale al naturale, rendendo il robot di Isaac Asimov più umano di
quanto lui stesso avesse immaginato, rendendo tutto questo più accettabile,
perché più riconoscibile e forse per questo Piero Racchi si inserisce in questo
spazio di sensibilità, ponendosi da un lato sul destino dell’umanità (da dove
veniamo? Dove andiamo?) e da un altro cercando un’armonia quotidiana,
allarmante e preveggente oltre che smitizzante e liberatoria. Artisticamente
Racchi, non per carattere, è autore tranquillamente isolato, appassionato
cultore del proprio immaginario che ruota attorno ai prodotti dell’uomo, non
dimenticando di viaggiare dentro all’uomo, quello nuovo, homus meccanicus,
tecnologico e robotizzato rappresentato appunto attraverso gli scarti della
produzione industriale. La reificazione è rappresentata da Racchi con ironia,
con divertimento e con nostalgia, curando con particolare attenzione gli
aspetti formali delle sue creazioni, perché di creazioni appunto si tratta,
dalle scelte dei materiali ai colori, dai segni alle intersezioni, portando
avanti un dialogo con la realtà, con l’attualità, in una denuncia sociale che è
volontà liberatoria che integra la coscienza collettiva con la capacità
creativa dell’artista.
Manlio Gaddi
Le sculture di Piero Racchi
compongono una sorta di microcosmo, come strutture portanti di un mondo
naturale, assoluto o simbolico, sia sul versante operativo sia su quello
morfologico. A questo artista più che la realtà interessa la forma, dimostrando
ancora una volta che l’attuale riflessione sull’astrazione non è una pratica
esclusivamente pittorica, vedi Judd. Serra e Lewitt, scultori che negli anni
sessanta hanno dominato il panorama della scultura informale. Un artista come
Piero Racchi percepisce che i suoi lavori non sono semplici fatti materiali,
resistenti all’interpretazione linguistica dell’astrazione, ma interagiscono
tra la cultura del reale e la cultura del sogno. L’impegno dello scultore è
molto più grande che nella pittura. Lo scultore porta una responsabilità più
grave, perché mentre la pittura è finzione, la scultura è oggetto e comprende
in sé il potere di presenza, un peso di realtà che manca alla pittura. Uno
scultore che oggi abbia l’ardire di essere astratto naviga fra gli scogli dell’idealismo,
sa di andare incontro ad un mare in tempesta, di sfidare le alte onde delle
incomprensioni, anche se molti di loro si nascondono dietro le installazioni,
come se si difendessero dietro un altare. Piero Racchi ha scelto la via più
difficile, ma la sua audacia è stata premiata dai risultati che appaiono ai
nostra occhi, illuminazioni idolatriche, icone fantastiche che irradiano luce
metallica, muschi, licheni, fantasia, cultura. La rinascita della scultura
informale e astratta riflette l’estasi del post-strutturalismo e la serietà e
l’intensità emotiva delle opere di Racchi assegnano a questo artista un posto
di primo piano nel mondo della scultura moderna. Il riferimento al reale non
impedisce all’artista di esprimersi attraverso immagini che mascherano la
realtà e lui interpreta alla perfezione lo spirito del tempo, dando una nuova
identità a immagini note, creando dal niente dei “gioielli”. Il rigore che le
opere di questo artista possiedono non è il rigore della ragione quanto invece
quello dell’emozione. Mentre non c’è più nulla da scoprire nella figurazione,
la figura astratta riesce ad emozionarci se non altro per il fatto che dobbiamo
“sforzarci” a comprenderne il significato, che non è mai univoco, ma cambia da
un individuo all’altro ed è addirittura in relazione con lo stato d’animo
dell’osservatore stesso. Senza dubbio, nell’esecuzione delle sue scultura,
racchi opera in conformità a determinate leggi: forma, superficie spazio e
sensazioni appartengono inequivocabilmente all’artista, in una maniera che va
oltre lo stile. Questi lavori determinano il periodo attuale, proprio perché si
definiscono da soli, essendo questa la condizione dell’autonomia che la
scultura e l’arte in genere hanno raggiunto.
Eraldo Di Vita
La materia
solidificata attraverso il colore è un moto vulvanico che imprigiona il tempo
ed in qualche modo lo uniforma avvicinando organicità e durezza. Nei lavori di Racchi
gli estremi si toccano. Vegetazione e rifiuti plastici subiscono la forma dell’alfabeto
cromatico fino a diventare indinstinguibili parti del medesimo lavoro. Il tempo
in Racchi è costruzione identitaria che trasforma l’oggetto casuale, già
strutturato, in nuovo elemento linguistico da far appartenere all’opera. E’
così che l’arte con leggerezza trasforma l’immaginazione in potere.
Piero
Racchi, artista di grande capacità immaginativa e attento osservatore della
natura, esplora da anni le infinite possibilità della tridimensionalità,
compiendo una minuziosa ricerca plastica ed un'indagine cromatica giungendo ad
una sua personale forma di scultura-assemblage dove i due aspetti sono tanto
intimamente connessi da risultare inscindibili.
Marta Bocconi
Anche per chi ha una grande dimestichezza con la
storia dell’arte moderna e contemporanea, anche per chi ha frequentato mostre,
gallerie e cataloghi,anche per chi non è facile a stupori di fronte a tecniche
e impostazioni inusuali, anche per chi è uso a interrogarsi costantemente sulle
possibilità che questa epoca ci consente; per tutti questi Piero Racchi è
ancora capace di suscitare un sussulto, una riflessione immediata. Il suo lavoro ti prende allo stomaco prima
ancora che tu possa iniziare una riflessione; la sua opera è cosi forte,
potente, distruttiva che reggerne il colpo è imbarazzante e straniante. Se il
fine del poeta è la meraviglia, Racchi interpreta e risolve questo dettato con
una semplicità e una naturalezza disarmante.
Visionaria, immaginifica e straordinariamente sorprendente l’opera di
Racchi ha trovato una indubitabile concretezza formale, indispensabile per
dominare quel magma di creatività che sgorga da una personalità naturalistica e
iper-tecnologica, superando così, con uno stile innovativo e personalissimo,
una evidente dicotomia. Scrive Sandro Serradifalco “Racchi dà sfogo alla sua
fantasia realizzando opere di ricercata fattura
non limitandosi alla figurazione ma appropriandosi della materia
dandole ruoli tra i più disparati”. E in
questa funzione di demiurgo, di forgiatore che si sviluppa e realizza il
concetto mitico dell’artista-creatore, di colui che modifica il dato, il
consueto, la realtà come ci è stata proposta, per indicarci una svolta, una
deviazione che ci conduce a un nuovo modo di vedere il mondo. Ci accompagna
pertanto sulla soglia di un universo sconosciuto, impensabile. Citando ancora
S. Serradifalco “Racchi è un artista poderoso, valido per la grande ricerca
compiuta durante gli anni per investigare sull’uomo e sul mondo senza mai porsi
limiti” In effetti nel gioco creativo l’artista non vuole confini
predeterminati.
E lo rivela con opere tridimensionali o a tutto tondo
con le quali il fruitore può dialogare proficuamente e interagire, immerso in
paesaggi dove la natura, una natura già contaminata, si sforza di riconquistare
il suo ruolo primario, apparentemente sconfitta da una tecnologia disumana,
immobile, spenta, plastificata e senza vita.
Racchi non dà risposte, ci pone l’eterno interrogativo: chi siamo, da dove
veniamo, dove andiamo; nel suo ruolo di artista ci sottopone una riflessione,
squarcia il velo di consuetudine che ci avvolge e ci mostra una possibilità.
Per il resto tocca a noi.
V. Baretto
Coesa tra raffigurazione simbolica e
virtuosismo narrativo, la pittura di Piero Racchi compensa una volontà costruttiva
sofisticata ed al tempo stesso fortemente immaginifica. Le sue tematiche,
sospese tre le influenze culturali passate ed esigenze fruitive contemporanee,
sono dimostrazione di un equilibrato senso compositivo.
L’attività compositiva di Piero Racchi lascia
intendere degli spasmodici proponimenti sperimentali connessi alla volontà
assemblatrice tra la classicità plastica e contemporaneità espressiva.
Assistiamo dunque, a tale possibile contrasto, il
quale grazie ad una sapiente valorizzazione dell’elemento simbolico diviene
esempio degnissimo d’eccelsa simbiosi costruttiva.
L’attingere dal quotidiano diviene occasione di
rivisitazione formale di un modus operandi superlativo. Le opere di Piero
Racchi attraggono sia per l’evanescente briosità cromatica che per l’allegorico
messaggio in esse contenute.
Un visitare la nostra oggettività attraverso gli
occhi e l’animo di un artista poliedrico e superlativamente sagace.
Il
maestro Piero Racchi dà libero sfogo alla sua fantasia realizzando opere di
ricercata fattura, non limitandosi alla figurazione, si appropria della materia
dandole ruoli tra i più disparati. Piero è un artista poderoso, valido per la
grande ricerca compiuta durante gli anni per investigare sul mondo e sull’uomo
senza mai porsi limiti. Anche la scelta delle cromie e della luce è appropriata
e adeguata alle sue opere che ci appaiono come eterei testimoni di un flusso di
idee che non ha né termine né confine.
Sandro Serradifalco.
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