COSTRUZIONE E PITTURA DI UN MIO QUADRO

giovedì 26 agosto 2010

CURRICULUM E CRITICHE.

Racchi, essendo autodidatta, la sua arte la attinta nei precordi dell'anima, ricettacolo di tutti i sentimenti e ricordi. Ricordi che hanno portato alla luce le origini della sua passione nata nel lontano 1953 quando, bambino, povero e privo di qualsiasi balocco, nel cortile di casa giocava con la sabbia, pietre, legni e terra bagnata. Con questi elementi naturali, costruendo, inventando, plasmando e vivificando una materia povera e grezza, si divertiva e, inconsapevolmente, dava origine alla sua ispirazione artistica acuendo l’ingegno. Oggi, come allora, provando le stesse emozioni e piaceri, nel suo studio, attorniato da materiali artificiali e naturali, fa solo quello che gli suggerisce la fantasia innata in lui.


  
   Piero Racchi è nato a Melazzo (AL) il 27 Giugno 1948. Vive ad Acqui Terme (AL). L’attività pittorica l’ha iniziata a trentatré anni. La grafica è stata la sua prima passione. In seguito è passato alla pittura a olio dipingendo quadri surreali. Dopo varie tecniche e sperimentazioni, ha creato una personale serie di quadri polimaterici intitolati “vedute spaziali” e, (rapito dal piacere di realizzare opere utilizzando materiali diversi) crea quadri e sculture che hanno un unico titolo (NATURA E ARTIFICIO) e significato: la natura che tenta disperatamente di affrancarsi dall’asservimento umano. Essa, con le sue lunghe dita vegetali, serpeggia, avvinghia, penetra in ogni crepa e pertugio dei gelidi e ambigui manufatti umani e, come un lenzuolo sepolcrale, con la presunzione di far nascere un nuovo ciclo di vita, li ricopre.


Materia, grezza o lavorata, naturale o artificiale. Materia scartata, dalla natura, attraverso il fisiologico processo di deperimento organico, dalla società industrializzata, a conclusione della vita funzionale degli oggetti di consumo cui ha dato forma. Materia naturale o artificiale in ogni caso residuale, destinata allo smaltimento, all’eliminazione, alla dissoluzione. Piero Racchi, scultore polivalente e polimaterico adopera questa materia residuale per farci vedere il contrasto oggi attuale tra natura e artificio. Questa materia, per nulla inerte, tantomeno inutile, diventa l’elemento fisico di partenza del suo lavoro creativo che ci costringe a una riflessione sulla società consumistica che, nell’utilizzare e scartare la materia sta distruggendo Madre terra. Sculture che divengono monito su come un giorno, forse non troppo lontano, la Natura si ribellerà a tutto ciò, andando a riappropriarsi del suo diritto a esistere, affrancandosi definitivamente dall’asservimento dell’uomo. La coscienza ecologica è quindi il fattore primo che muove il pensiero e l’azione di Piero Racchi, la consapevolezza della possibilità che la Natura, contrastando l’azione dell’uomo, possa riappropriarsi della terra insinuandosi in ogni angolo con le sue propaggini e distruggere le brutture tecnologiche per far riemergere una bellezza capace di esprimere in modo potente valori esistenziali, spirituali, prima ancora che estetici. Racchi compone i suoi bassorilievi, dai colori fortemente contrastati, utilizzando quelli che sono “rifiuti solidi urbani” perché stiamo parlando di plastica, contenitori di uova, piombo, ferro, polistirolo, das, stuzzicadenti, polistirolo, carta, alluminio, argilla espansa, cannucce, polistirene, o scarti di elementi naturali: legno, rami di palma, pietre, segatura, radici, conchiglie, pistacchi, corteccia. Naturale o artificiale la materia di racchi è un campionario da discarica a cielo aperto, che nelle sue mani però diventa l’inesauribile serbatoio per elaborare i suoi assemblages, composizioni di forte impatto plastico, che si propongono prevalentemente nella forma tradizionale dell’oggetto-quadro, pur non disdegnando, occasionalmente, la bidi-mensionalità della tela. Gli assemblages di Piero Racchi sconfinano nell’arte concettua-le: il messaggio ecologico struttura la propria semantica attingendo tanto al singolo elemento, alle sue specifiche caratteristiche fisiche e linguistiche, quanto alle relazioni, di continuità o contrasto, che ciascuno instaura con gli altri elementi e il complesso della composizione. La raccolta, dettata anche dalla casualità dell’incontro fortunato, individua subito la potenzialità in grado di sostenere una “ri-creazione” artistica nella quale la grammatica pittorica, regolatrice nei rapporti fra masse e cromie, fa da collante alle varie unità residuali, selezionate e combinate sul supporto. L’effetto è sempre particolare, la materia si riscatta dal ruolo di semplice vettore di finalità pratiche, un tempo prioritarie e ormai perdute, per acquisire nuove e ugualmente fondamentali funzioni sociali, diventando evocazione emotiva, nuova scrittura da decifrare, ricca di allusioni esistenziali, monito accorato per un’urgente presa di coscienza della follia della società consumistica.
                                                                                                                      Vittorio Sgarbi


Non si scappa. Ogni opera di Piero racchi, artista operante ad Acqui Terme, si intitola nello stesso modo, Natura e artificio. Binomio fra i più ricorrenti nelle vicende del pensiero universale, e non solo di quello occidentale, che ha inteso distinguere, ma non necessariamente contrapporre l'ambito di ciò che esiste indipendentemente dalla capacità creativa dell'uomo e ciò che dall'homo faber invece dipende. In filosofia, e di riflesso anche nell'arte che si é posta come espressione estetizzata di particolari mentalità, la natura ha assunto valore positivo nelle visioni idealiste, convinte della sostanziale perfezione del creato in corrispondenza di quella del principio creante. In questa prospettiva, all'uomo non rimane che ricercare il massimo livello di armonia con la Grande Madre, potendo al massimo aspirare alla sua emulazione. Così la vedevano, per esempio, i classicisti rinascimentali; ma già col Manierismo e il Barocco, si afferma la volontà di individuare nell'artificio un'altra possibile natura, parallela a quella reale, eppure dotata di autonomia normativa rispetto ad essa. Nell'ottocento, due novità destinate a influenzare enormemente la mentalità moderna: da una parte, l'incrinazione, in filosofia, del primato idealista in favore del pensiero negativo (da cui anche la leopardiana “natura matrigna”), dall'altra la progressiva identificazione dell'artificio con il progresso tecnologico, capace di determinare nuovi mondi più di quanto l'arte sarebbe stata in grado di fare. La Natura e artificio di Racchi, intesa come programma complessivo della sua opera, é coerente con la storia appena sintetizzata. Il confronto, stridente, é ormai fra le origini della materia di cui Racchi si serve, la natura in un verso, l'industria nell'altro. L'armonia classicista é ormai un mito lontano, ma non del tutto dissolto; perché in fondo Racchi, componendo assemblages eterogenei di radici, metallo, polistirolo o plastilina, continua a contemplare la possibilità di una mediazione fra estremi che l'attualità vorrebbe sempre più inconciliabili, ognuno non negando l'esistenza altrui. E' l'intuizione dell'artista, associando liberamente l'inconsueto, organizzandolo in una forma plastica che non si deve al caso, ma all'applicazione di un preciso criterio regolatore, lo stesso riscontrabile nella logica della macchina, a stabilire una nuova condizione che tende a superare i vecchi steccati concettuali. E’ da qui che la vita, non solo dello spirito, può ripartire.
                                                                                                                                 Vittorio Sgarbi
                                                                                                         

       
Non si scappa. Ogni opera di Piero racchi, artista operante ad Acqui Terme, si intitola nello stesso modo, Natura e artificio. Binomio fra i più ricorrenti nelle vicende del pensiero universale, e non solo di quello occidentale, che ha inteso distinguere, ma non necessariamente contrapporre l'ambito di ciò che esiste indipendentemente dalla capacità creativa dell'uomo e ciò che dall'homo faber invece dipende. In filosofia, e di riflesso anche nell'arte che si é posta come espressione estetizzata di particolari mentalità, la natura ha assunto valore positivo nelle visioni idealiste, convinte della sostanziale perfezione del creato in corrispondenza di quella del principio creante. In questa prospettiva, all'uomo non rimane che ricercare il massimo livello di armonia con la Grande Madre, potendo al massimo aspirare alla sua emulazione. Così la vedevano, per esempio, i classicisti rinascimentali; ma già col Manierismo e il Barocco, si afferma la volontà di individuare nell'artificio un'altra possibile natura, parallela a quella reale, eppure dotata di autonomia normativa rispetto ad essa. Nell'ottocento, due novità destinate a influenzare enormemente la mentalità moderna: da una parte, l'incrinazione, in filosofia, del primato idealista in favore del pensiero negativo (da cui anche la leopardiana “natura matrigna”), dall'altra la progressiva identificazione dell'artificio con il progresso tecnologico, capace di determinare nuovi mondi più di quanto l'arte sarebbe stata in grado di fare. La Natura e artificio di Racchi, intesa come programma complessivo della sua opera, é coerente con la storia appena sintetizzata. Il confronto, stridente, é ormai fra le origini della materia di cui Racchi si serve, la natura in un verso, l'industria nell'altro. L'armonia classicista é ormai un mito lontano, ma non del tutto dissolto; perché in fondo Racchi, componendo assemblages eterogenei di radici, metallo, polistirolo o plastilina, continua a contemplare la possibilità di una mediazione fra estremi che l'attualità vorrebbe sempre più inconciliabili, ognuno non negando l'esistenza altrui. E' l'intuizione dell'artista, associando liberamente l'inconsueto, organizzandolo in una forma plastica che non si deve al caso, ma all'applicazione di un preciso criterio regolatore, lo stesso riscontrabile nella logica della macchina, a stabilire una nuova condizione che tende a superare i vecchi steccati concettuali. E’ da qui che la vita, non solo dello spirito, può ripartire.                                                                                                    
                                                                                                                                          Vittorio Sgarbi.
                                                                                                                 
Artista di grande capacità immaginativa, con un'anima ecologica che lo rende attento osservatore della natura, indagata con appassionata curiosità, da anni Piero Racchi esplora le infinite possibilità della tridimensionalità, coniugando una minuziosa ricerca plastica con una sottile indagine cromatica per addivenire ad una sua personale forma di scultura-assemblage vivacemente policroma dove i due aspetti sono tanto intimamente connessi da risultare inscindibili.
Il colore, infatti, brillante, vivido, ad effetto porcellanato,  un uniforme velo lucido che cattura la luce, è determinante per la trasfigurazione  dell'oggetto anestetico, scarto pazientemente cercato o casualmente trovato, oggetto quotidiano, astruso ingranaggio, legno, ferro, plastica, in quelle indecifrabili forme complesse che hanno conosciuto altri luoghi ed altre funzioni, plasmate in un mix misterioso nel quale l'occhio cerca invano significati noti, persi definitivamente.
In una sorta di trasformazione gestaltica, il risultato finale è un "tutto" che è "altro" e di più della somma dei singoli pezzi, perché l'azione dell'artista, con un intervento demiurgico, cancella ogni traccia oggettuale e reinventa i nessi logici, le relazioni gerarchiche, le attribuzioni delle cose, ne svela le possibilità espressive nascoste, porta alla superficie potenzialità impensate, in una parola crea, o ricrea, la materia animandola di nuova vita come solo l'arte sa fare, perché gli artisti hanno la prerogativa di vedere e farci vedere  le cose vecchie con occhi sempre nuovi .
                                                                                      Vilma Torselli


Segni e simboli provenienti da un'altra dimensione si compongono e si sovrappongono sul supporto a creare un ardito complesso indecifrabile, dove natura e artificio si incontrano e si scontrano ognuno per affermare il proprio dominio. I lavori di Pietro Racchi sono carichi di significato ma lasciano libertà di lettura a chi guarda, andando oltre il riconoscibile per inondare lo spazio di vivacità vibrante, veicolata dal colore e dal gesto in un dialogo continuo, che riesce a trasmettere ritmi incalzanti intrisi di energia, che sfuggono alle regole e ai canoni tradizionali della rappresentazione.
                                                                                                                        Paolo Levi.

L'armonia suggerita tra macchina e natura non solo rendono le opere di estrema godibilità estetica, ma ci fa ben sperare in un mondo migliore dove questi due elementi (natura e artificio) possano riuscire a convivere con grazia e rispetto l'una per l'altro.
                                                                                                                                                   Marta Boccone
Armoniosa creatività tra "natura e artificio"
   Le opere di Piero Racchi sono espressione della sua personale visione del mondo che si connota tra "natura e artificio". Questo infatti è il titolo che l'artista ha voluto dare alle sue ultime creazioni in quanto rappresentano la concretizzazione di come la natura con la sua capacità di rigenerarsi, tenti costantemente di sopravvivere all'azione distruttrice dell'uomo. Sono racconti visivi dal forte impatto emotivo che conducono l'osservatore verso profonde riflessioni, un esempio di flessibilità descrittiva immediata e incisiva. bassorilievi o sculture a tutto tondo caratterizzati dalla commistione tra elementi meccanici, ingranaggi enigmatici ed elementi naturali e fitomorfi che tentano di riappropriarsi del proprio spazio. L'arte di Piero Racchi assume così connotati simbolici di rara intensità: le tematiche di questi lavori appartengono ad una creatività colta, propensa a riproporre contenuti attuali che diano spazio ad una ricerca laboriosa anche sulla forma e il colore. Ciò che emerge dalla minuziosa elaborazione dei toni e dei contro toni, che strutturano armoniosamente ognuna di queste composizioni, è l'idealizzazione concettuale di ogni elemento che si carica di significati trascendenti che mirano a scuotere le coscienze di chi osserva. L'artista da sempre affascinato dall'arte in quanto mezzo per esprimere ricordi e sentimenti dell'anima, in essa ha fatto confluire tutta la sua curiosità e il suo amore per la natura. I suoi assemblaggi polimaterici raccontano di un animo ecologico che si ribella alla realtà di un modo dove l'artificiale domina incontrastato, un mondo stravolto dalla tecnologia e dal consumismo.
                                                                                                                                            Serena Carlino.


Mai come in questo periodo in cui la natura sembra ribellarsi - con manifestazioni drammatiche - contro i soprusi perpetrati nel tempo dalla mano dell’uomo, la ricerca artistica di Piero Racchi risulta attuale. In “natura e artificio”, che appartiene a una serie di opere dal medesimo titolo, la Natura tenta di riconquistare terreno a discapito dell’Artificio attraverso l’azione espansiva della vegetazione, che copre progressivamente la superficie metallica del marchingegno meccanico. L’azione di rivalsa da parte della Natura non assume però le forme della catastrofe, bensì quelle della rinascita, della riappropriazione dell’habitat peculiare e questo grazie all’uso da parte dell’artista di colori vivaci, brillanti, resi tali dalla verniciatura che simula la levigatezza e la lucidità della porcellana. L’azione di penetrazione della vegetazione acquista forza ed evidenza grazie al ricorso a una tecnica polimaterica in cui si fondono elementi naturali e artificiali. Il discorso dell’opera di Piero Racchi finisce così per trascendere la riflessione sul rapporto tra uomo e natura sconfinando in un ragionamento sul significato stesso dell’arte. Arte, il cui scopo è da sempre quello di riprodurre la natura, in maniera più o meno mimetica a seconda delle epoche storiche. Arte, la cui etimologia latina ars ci richiama ai concetti di mestiere, abilità, perizia, che sono gli strumenti con i quali l’uomo tenta di ricreare la natura attraverso la simulazione, l’ “inganno”, ancora ars in latino. La pitto-scultura di Piero Racchi dichiara quindi la centralità del rapporto uomo-natura non solo nella nostra esistenza quotidiana, ma anche relativamente al ruolo dell’arte, il cui fine primo è quello di far maturare la consapevolezza del senso della vita stesso. “natura e artificio” risulta un forte monito a un senso di responsabilità nonché un gioioso auspicio di una rinascita della natura, perché è ormai chiaro che gli ingranaggi del meccanismo progettato dall’uomo si sono inceppati.
                                                                                                                     Chiara Salanti

L’arte moderna ormai ha battuto tutti i sentieri della libertà creativa, sia con i bagagli della buona fede, sia con quelli della truffa. Difficile comunque stupirsi dopo tutto quello che abbiamo visto, e qualche volta subito, nell’ultimo mezzo secolo, anche se ogni sforzo degli “artisti” è rivolto alla novità, meglio se provocatoria, anche se cretina.
Con Piero Racchi il nuovo riesce a non essere banale, a non suscitare reazioni d’indifferenza o di saturazione, persino in chi è rimasto al concetto di arte come trasmissione d’emozioni. Già al primo contatto, le sue creazioni danno una sensazione di piacevolezza, sia per le forme che per i colori e quindi mettono a proprio agio anche chi non è mai stato convinto della necessità di contraddire l’estetica per fare arte. Una delle tante tesi balorde e strumentali circolate negli anni della ricerca del nuovo tout court.
Davanti alle sue opere ci si sente condotti in un’epoca senza tempo: potrebbe essere tra duemila anni, oggi o ai tempi degli Assiri e dei Babilonesi in Mesopotamia. I suoi totem potrebbero essere le colonne della favolosa Atlantide inghiottita dall’immane cataclisma, quelle distrutte e sommerse della biblioteca di Alessandria d’Egitto, custode di tanti documenti della cultura pagana o le pareti della sala da ballo del Titanic. I templi degli Aztechi vinti dalla foresta avrebbero su di noi lo stesso effetto. Potrebbero anche essere le colonne del Bernini di piazza S. Pietro tra duemila anni. Chissà!
È inevitabile dopo queste prime impressioni, essere spinti a riflettere su concetti universali, quali la caducità della nostra vita e la continuità della Natura, la vanità delle nostre infinite beghe e la straordinaria forza dell’ “a livella” come la chiamava Totò: il processo riproduttivo universale per cui da ogni fine inizia un nuovo ciclo vitale.  Quella congerie di scrap, come la definirebbe un critico USA, raccolta con cura collezionistica da Piero, da un fondo di cassetto di laboratorio o da una miserabile discarica, rivitalizzata com’è, può essere degnamente posta in un salone elegante o nell’atrio di un’impresa, attenta al design ed alla propria immagine. In pratica una vera e propria azione non illusionistica, ma realmente magica.
La mostra aperta in quell’antro suggestivo di Palazzo Chiabrera non è che una riduzione dimensionale della tematica di Racchi appena descritta. Le mini opere esposte sono le tessere di un mosaico che se opportunamente accostate possono moltiplicare il piacere visivo e ludico mantenendosi, comunque, coerenti con il tema naturalistico-creativo di fondo. La non trascurabile caratteristica di essere alla portata di chiunque e la loro adattabilità a qualsiasi ambiente costituiscono un ulteriore stimolo, per chi le apprezza, a partecipare al diletto dell’autore, disponendole in composizioni personalizzate. Si tratta dunque, se vogliamo, di una materializzazione conscia od inconscia del concetto di Democrazia: possibilità per tutti di fruire di un bene, trarne piacere e goderne in continuità, parteciparne e trasmettere la sua ammonizione naturalistica e rivitalizzante. 
Il fatto più importante però, oltre al contenuto” filosofico” ed alla tecnica “orafa”, è il viaggio che la vista dei lavori di Racchi, dopo la trasformazione sicuramente artistica dell’Autore, ci permette di compiere pur fermi in un qualsiasi locale dove si svolge una sua mostra. È il viaggio dell’anima, della fantasia, dell’arte in definitiva. Quel viaggio che dal mondo esterno, coinvolgendo i nostri sensi, giunge alla parte più intima di noi provocandoci piacere o dolore.
A mio avviso con Racchi e le sue “invenzioni” il processo si verifica e, fatto di notevole valore, è un cocktail coinvolgente di entrambe le emozioni. Questo risultato, raramente raggiungibile, ha anche un meno percepibile ma sicuro effetto “politico”, mostrando le possibilità della singola umana sensibilità, con una sorta di metempsicosi che è esattamente il reciproco di ciò che, di fatto, accade nel nostro Paese. Qui, appunto, anziché il rinnovamento e la rivitalizzazione si celebrano i riti dell’abbandono e della contaminazione distruttiva, rispettivamente del più grande patrimonio d’arte e di uno degli ambienti più belli del pianeta. Da queste opere, dunque, ci giunge una severa ammonizione della Natura, come per ricordarci che i guasti, le macerie provocate dal nostro assurdo, egoistico e megalomane agitarci per i quattrini e le cose banali, sono autolesionistici. Per ammonirci che il nostro incosciente, irrimediabile vizio di consumare, gettare rifiuti ovunque e distruggere senza necessità, alla fine non lascerà neppure un’infima traccia di noi, risucchiato come sarà, tutto, dalla forza inarrestabile della Natura. Se non sarà la Natura terrena, stremata dai nostri attacchi, sarà quella astrale. Quella che immobile ma presente e silente, osserva il nostro stupido, colpevole scempio.
Più che un pittoscultore, come ama definirsi, Racchi, dunque, è un “rivitalizzatore artistico-profetico”. 
Alfredo Pellegrini

La domanda che Racchi sembra essersi posto in termini risoluti è quella di come si possa ancora, nella concitata realtà del mondo moderno, teatro della sconvolgente rivoluzione industriale, continuare, a dipingere o scolpire, fingendo che nulla sia accaduto. L’arte di Piero, comunque la si voglia vedere, è legata ad un’azione di frontiera, operata per allargare la visione del mondo o per insinuare dubbi sul contenuto, per formulare tecniche innovative, non progettuali. Di frontiera, ai margini, ai bordi, come spetta a chi non ha il compito di ripetere il già visto ma di invitarci a cercare e sentire quello che ancora non conosciamo. Il tema conduttore è il rapporto arte-natura-artificio che ci accompagna in una fantastica passeggiata, occasione di incontri incantati e silenziosi sul filo della memoria e di oniriche visioni: è la materia la vera protagonista, una materia povera e ferita che trova nei colori la forza di rinascere. Pare quasi che le opere di Racchi vivano un’esistenza fittizia come fossero diapositive proiettate sui muri o oggetti che, per una specie di magia animistica, presiedano a un mondo e a una vita propria.
Si tratta sempre di suscitare, nella persona che guarda l’opera, l’impressione che una logica strana ne abbia diretto l’esecuzione: un inconsueto criterio che obbliga alle più inattese soluzioni e, nonostante gli ostacoli che crea, produce sorprendenti risultati. Come Oldenburg, Piero sembra aver sperimentato il concetto di dislocazione: le sue creazioni, infatti, stanno sospese tra il regno della pittura e quello della scultura. A modo suo egli narra chimeriche storie: la sua opera è fatta di stratificazioni, di temi e motivi che si accavallano, si incrociano, magari si annullano a vicenda, ma finiscono sempre per dar luogo a qualcosa di nuovo e di imprevedibile. La genesi, la nascita, la crescita avvengono in uno stato di sogni ad occhi aperti. Avventurarsi nella natura di Racchi significa correre il rischio di essere completamente presi nel groviglio di germinazioni spontanee dai colori irreali, immerse in una luce  brillante, fredda ed artificiale.
Piero, con inalterata sensibilità, continua, comunque, a voler sperimentare, scoprire: permane il bisogno istintivo di esprimersi, di dare corpo alla produzione incessante di apparizioni che popolano il suo universo immaginativo e i suoi labirintici percorsi.
I colori dispensano un’impronta di magica fioritura, a volte inquietante, e hanno una fondamentale importanza fino a diventare, nel loro ruolo di collanti, veri e propri protagonisti, riuscendo a dare campo a speranze e paure, in cui c’è lo spazio per tutto e tutto appare possibile. Essi ricoprono i suoi assemblaggi, le sue proliferazioni, con un velo lucido dall’effetto porcellanato; il gusto del paradosso fornisce lo spunto per pensare a Piero come a un novello Luca della Robbia, improvvisamente calato in un’atmosfera extraterrestre senza tempo.
Soprattutto attraverso la scultura l’artista incontra realtà concrete, pezzi scartati con la loro storia, raccolti e combinati che lo chiamano dal loro vissuto, pronti a meravigliose trasformazioni. Si tratta di materiali trovati per caso o scrupolosamente cercati, che, nella nuova fusione, acquistano la dignità di piccoli monumenti. Nel suo lavoro la polemica ecologista contro la mole sempre più soffocante degli oggetti che vengono gettati via si sposa con l’idea schwitteriana della riqualificazione estetica delle cose inutili, non più in uso.
Tutto allude sempre a un qualcosa di enigmatico, straniante e, questo, in genere, non è conseguenza soltanto del processo alchemico della forma, quanto dell’alchimia del gesto, nel senso che l’opera è l’espressione immediata dei movimenti dell’essere e il luogo di inaspettate metamorfosi.
Se l’alchimia, dunque, è in grado di diventare strumento di indagine e di conoscenza, può, a buon diritto, essere avvicinata all’opera di Racchi, nella misura in cui l’opera stessa è una continua ricerca di libertà, nell’arte e nella vita. Quella libertà che Piero concede allo spettatore che, decifrando e interpretando, aggiunge il proprio contributo al processo creativo.


                                                                                                                                       Arturo Vercellino

   Ricordate "2001: odissea nello spazio, il film cult degli anni settanta, le scimmie antropomorfe atterrite e soggiogate dal monolito levigato che occupa ossessivamente lo schermo e la fantasia, nella sequenza iniziale? A me è venuto da pensarci, da sentirlo angosciosamente evocato ed allusivo, davanti ad una delle opere (sculture? aggregazioni? ectoplasmi?) di questo bizzarro ed inquietante Stregone che, alle falde del monte omonimo, turba i sonni e stimola le sonnacchiose fantasie della città termale.
   Si può essere in parte d'accordo sulla valutazione, sui meriti artistici di Piero Racchi, ma una cosa è certa: usciti da una delle sue mostre o dal suo atelier (ma no: laboratorio, officina, fucina) non si resta mai indifferenti, qualcosa te lo trascini dietro, come un sogno o un presentimento, una rivelazione illuminante o maligna. Fabbro o alchimista, Prospero o Cagliostro, Piero ha comunque al suo servizio la grama, rozza animalità di Calibano e la onirica grazia di Ariele. Il suo comporre su una rigida forma elementare (cubo, parallelepipedo, sfera) una proliferazione di vite straziate e strazianti; il trarre da una geometrica cornucopia i mostri che la realtà ha conteso al sogno; la scoperta del ventre molle - fitto di abiezioni e aberrazioni, sotto l'apparente legalità - della tecnica e del prodotto scientifico: tutto ciò ha il sapore - e credo il valore - di un esito catartico, come di chi esorcizza il male denunciandone senza ritegno le proliferazioni più allucinanti. Si direbbe così, con il Goethe del dopo - Werther, che noi, e con noi l'autore, " come dopo una confessione generale" ci sentiamo "liberi, col diritto ad una vita nuova": una vita nuova che però, nel nostro caso, ha da tener conto di quegli scheletri e di quegli incubi, per riscattare le forme della natura ad un miglior destino. L'arte di Racchi si giova, per questo, della funzione del colore, un colore che penetra, avvolge, vela, si stempera nelle forme rimorte della natura e dell'homo sapiens. Il colore, condizionandole, in certo modo annulla le forme, le spiritualizza, le assorbe in un'altra orbita e in uno spazio dilatato che c'è consentito di intuire appena.
   La golosità di vita che caratterizza Racchi, il suo proteiforme operare nel campo dell'arte figurativa, della musica, della poesia, conducono ad un fatale esito dispersivo; e tuttavia è qui che, singolarmente, proprio nel disordine, nella multiforme epifania dei lacerti di vita e di materia, l'artiere trova la sostanza migliore per costruire ed esprimere il disgusto e la disperazione, l'ansia e il rovello, ma anche la fondamentale tensione etica ad un che di altro, che riproponga l'istituto della creazione, non più dal nulla, ma dal recupero     ( possibile?… certo, è tutto da vedere, da sperimentare) della macerie della terra desolata.                                                                              
                                                                                                                                   Riccardo Brondolo.

     I veri viaggiatori - diceva Baudelaire - sono quelli soli che partono per partire, senz’avere né meta né ragione. E si avventurano, temerari, nell’ignoto, anche a costo di naufragare, fidando nel loro estro di visionari. Come i cavalieri erranti del medioevo che s’inoltravano nella foresta, a caso: tanto sapevano che prima o poi qualcosa sarebbe accaduto. Così anche Piero Racchi, artista a suo modo unico e poliedrico, che trascorre con disinvoltura dalla poesia al romanzo, dalla musica all’arte figurativa, raggiungendo nell’ambito plastico-pittorico esiti di grande originalità e di sicuro rilievo. La selva in cui egli si muove è il mondo stravolto dalla tecnologia e dal consumismo, dove la natura, straziata e mortificata, sembra relegata a un ruolo ancillare. L’artificiale domina incontrastato, disseminando però la terra di liquami e di spazzatura. Di ruderi e di macerie. L’uomo stesso è ormai prigioniero della “gabbia d’acciaio” da lui forgiata: una gabbia che assume a tratti le sembianze di una locomotiva impazzita, che procede a velocità folle in una notte fosforescente di luminarie innaturali. La prospettiva è ovviamente la catastrofe, divinata da Racchi con lucidità di veggente. La selva diventa una sorta di labirinto dove, a ogni svolta, s’incontrano i mostri prodotti dal sonno della ragione. A ogni passo è lo scialo. Scarti, relitti, rifiuti ingombrano il sentiero. Sunt lacrimae rerum. La natura piange, alla stregua del “ciarpame reietto” su cui si fonda il duplice trionfo della moda e della tecnologia. Qui il serpente si morde davvero la coda: la moda divora ogni giorno se stessa, la tecnologia si nutre della propria obsolescenza. Si rinnova così il mito di Crono che ingoia i suoi figli. È la parabola - oscena - della modernità.
      Ma se l’apocalisse è un destino che affolla di incubi e di sogni premonitori l’inquieta veglia di Racchi, egli ne fa pure la sua musa
ispiratrice. Non solo perché, da buon samaritano, si sofferma a contemplare pietoso i guasti e le lacerazioni provocati dal “sistema” - per dirla secondo il lessico sessantottino -, a raccogliere per via, tra le scorie e le deiezioni che si affastellano a cielo aperto nei cimiteri di macchine, le povere reliquie, inani e inanimate, di tanto scempio - i suoi “ossi di seppia” -, sì anche perché si azzarda a riciclarle, a ridare loro una dignità, un senso (che forse non hanno mai avuto), inserendole, come tessere di mosaico o, meglio, come cellule di un organismo a suo modo vivente, in un progetto artistico che non ha nulla di premeditato, ma che sono esse stesse a suggerire, a proporre, a indirizzare. Non si tratta tanto - sulla scia di Kurt Schwitters - di riqualificare esteticamente oggetti inutili e desueti, siano essi vilipesi cascami della tecnologia o rimorti lacerti di natura, quanto di insufflare in essi una nuova vita. L’operazione ha in sé qualcosa di artificiale, ma, a ben guardare, va in direzione opposta a quella seguita dal progresso tecnico-scientifico, che tende a sostituire la macchina all’uomo e l’inorganico all’organico. Il sogno di Racchi non è quello faustiano di dominare la natura, ma, se mai, quello prometeico di salvaguardare l’umanità, rivendicandone il carattere, appunto, “naturale”. Non è rescindendo le radici dalla terra o, peggio, stuprandola e sfregiandola, senza ragione e senza misura, che l’uomo può sperare di vivere meglio. La vita è una sola e affonda le sue radici nella natura.
      L’arte di Racchi è sì teknē, alla lettera, ma nulla ha della hybris della moderna tecnologia. Essa nasce infatti dal rispetto per le cose, anche le più umili, e si mette al loro servizio. Il messaggio che ne deriva non è dunque volontaristico, viziato da una soggettività ridondante. Anzi, non è nemmeno premeditato, essendo in gran parte espressione dell’inconscio, di una forza che trascende cioè gli angusti confini dell’io e, forse, della stessa persona. Parlare di assemblaggi potrebbe allora apparire riduttivo, in quanto le pitture-sculture di Racchi sono in realtà delle concrezioni viventi, le quali sembrano autogenerarsi, in un assiduo e libero rampollare che ricorda l’inesausta proliferazione delle madrepore. Rami, radiche, tronchi, semi, valve di conchiglie, felci, pigne e via enumerando sono i materiali - l’alfabeto, diremmo - di cui l’artista si serve per svolgere un discorso che, pur nella varietà dei suoi esiti, ha la perentoria e parossistica ossessività delle fissazioni. Il pianto (e il rimpianto) della natura si fa urlo disperato di denuncia e di protesta, ma anche di rivalsa. Essa, infatti, fagocita e assorbe nell’esasperato vitalismo delle sue metamorfosi anche l’altro-da-sé, le forme e i corpi estranei della tecnologia, imprigionandoli nella sua ragnatela. L’assimilazione passa attraverso un sottile e complicato processo di pepsi che finisce per ridisegnare le forme originarie dei reperti o, meglio, per alterarne - o abolirne -  la funzionalità.
      Caos e calcolo convivono in un equilibrio di contrapposte tensioni, dando vita a efflorescenze fantasiose, a sculture polimateriche che hanno l’allucinata parvenza di certe chimere. Su tutto si stende poi, assecondando una tecnica già sperimentata da Claes Oldenberg, la lucida bava del colore, che congela in una dimensione onirica, fortemente straniata, le anfibie, ambigue “visioni” dell’artista. Un cromatismo algido e acceso ne investe i particolari e fa degli objets trouvés che ne formano il tessuto connettivo tutt’altre cose, tanto più irreali quanto più all’apparenza individuabili. La patina traslucida che li impermeabilizza contribuisce a srealizzarli, sottraendoli all’hic et nunc, ma solo per dar forma ectoplasmatica alle speranze e ancor più alle paure dell’artista. Presagi o auspici, queste surreali creazioni a metà tra la pittura e la scultura sono dunque mere proiezioni dell’inconscio (magari di un incoscio in senso hartmanniano) ed hanno la petulanza un po’ sinistra - e quindi inquietante - degli incubi. Sono fiori che nascono, montalianamente, dalle macerie dell’abisso, espressione turbata di un’anima mundi che si sente minacciata nella sua integrità dalla sfida tecnologica e dalla connessa volontà di potenza della moderna civiltà delle macchine. Fiori, se non del male, del malessere che pervade la nostra società. Come ebbe a scrivere Italo Calvino: “Più le nostre case sono illuminate e prospere più le loro mura grondano fantasmi; i sogni del progresso e della razionalità sono visitati da incubi”. Ora, a chi - come Racchi - ha occhi per vedere e orecchi per udire i segnali d’allarme (l’urlo o - per dirla con Lucrezio - i “latrati”) che provengono dalla natura non possono certo sfuggire. E da artista qual è se ne fa audace e puntuale interprete.

                                                                                                                                                                                                               Carlo Prosperi


Enigmatica, multiforme, tentacolare è la scultura polimaterica di Piero Racchi, che plasma forme complesse, ascensionali; altre volte compare il cerchio, simbolo di perfezione, cerchio magico per allontanare il male. Mi vengono in mente incisioni medioevali di maghi che, credendosi protetto dal cerchio che hanno tracciato attorno a sé, evocano le ombre più infernali. L’arte di Racchi non è rassicurante, la superficie appare schiumosa, zigzagante; evoca fondali marini, alghe ondeggianti nell’oscurità di sorgenti segrete. Affiorano conchiglie in forme floreali. Tre i colori dominanti: un azzurro intenso, tra il blu e il turchese, un aspro verde-veleno; un nero dilagante e lucidissimo. L’autore da un significato ambientalista: la natura vuole emergere rigogliosa, mentre il buio inquinamento la distrugge. Ma il verde rinasce, anche se in tonalità dissonanti come quelle di Van Gogh, cui ho dedicato una poesia, ecco l’incipit: “ Vincent,il verde veleno nei tuoi quadri / corrode l’anima, / scarlatto ti brucia il sangue / di febbre vorticosa “. Anche certe opere di Racchi hanno piccoli punti rossi che si posano inquietanti. Ciò che racchi ama è agire sulla materia, concreta, dura, metallica, quando inserisce parti di ingranaggi, rotelle dentate appartenenti forse a orologi, o fantastiche macchine del tempo. L’autore desidera creare un’arte non datata, apparentemente astratta, poiché arduo da decifrare è l’uomo, e il suo pensiero. Le trasformazioni della materia artistica di Racchi mi evocano i versi della 2 Tempesta “ di Shakespeare: “ Nulla di lui che si perda o vada in rovina, tutto subisce splendente metamorfosi marina. Le mani diventano coralli, gli occhi perle, tutto si muta in qualcosa di nuovo e di strano “.
                                                                     Egle Migliardi. Poetessa e critica letteraria


Una particolare attenzione nell’utilizzo dei materiali, per esplicita ammissione dello stesso Piero Racchi: si tratta di “tutti quadri polimaterici, e per farli uso materiali naturali e industriali (riciclati)” con inserimenti decorativi che richiamano per lo più la Natura, una capacità di invenzione di macchine celibi che richiamano alla mente Marcel Duchamp, di aiuole semimeccaniche dove si instaura un equilibrio dinamico nella lotta fra la natura e il manufatto industriale, in una atmosfera tra il metafisico ed il surreale (antica passione mai sopita questa di Racchi), affermano una volontà di posizionamento dell’opera di Piero Racchi fuori dal tempo, in una zona dedicata alla meditazione sull’essere e il divenire, di meditazione, di pensiero. Una attenzione dell’artista allo sviluppo delle proprie sensibilità, che sono multi laterali e multi culturali, utilizzando tempi e ritmi secondo natura. In questo si situa la sua originalità di artista ed il valore intrinseco delle sue opere, frutto di una ricerca personalissima, rigorosa nel metodo e meticolosa nelle tecniche utilizzate dove la sensibilità tattile si accompagna a quella visiva, e verrebbe da pensare, allacciandosi alle sue abilità musicali, anche a sensazioni sonore, musicali appunto. Si ha l’impressione che queste opere nascano selvagge, tra sassi metallici e strutture biologiche polimorfe, una volta scomparso lo stato d’innocenza dell’artista, che però cerca faticosamente attraverso ricordi forse d’infanzia di rianimare sottigliezze sonore, odori di erbe tagliate e di salso marino, di giardini innaffiati e di sciabordio di onde. Opere completate da un accompagnamento, prezioso, arguto ed ironico, gioiosamente ludico che richiama alla mente quanto scritto in Homo Ludens da Johan Huizinga (1939), in cui si esamina il gioco come fondamento di ogni cultura dell’organizzazione sociale. L’aspetto indubbiamente ludico presente in molte, se non tutte, le opere proprio a partire dalla ricerca dei materiali per finire nella scelta dei colori, sempre molto accesi, utilizzati; il gioco è andato via via raffinandosi per giungere ad essere coscienza operativa e professionale, poetica, una attenta indagine dove la molteplice e multiforme personalità dell’autore, il suo desiderio di espressione, di testimonianza e di denuncia, l’invenzione di tematiche e lo stile peculiare, lo rendono un unicum, un caso a parte nel panorama dell’arte italiana contemporanea. L’artista si salva da uno stato di ansia, presente nelle sue opere che pure nella loro politezza parlano di inquinamenti e di mutazioni genetiche, attraverso il ripensamento ludico, gioioso e ironico, in cui convergono la sua curiosità e fantasia costruttiva, che lo pongono però anche vicino al mondo reale dell’uomo, quello della produzione industriale che crea non solo il nostro benessere ma anche, in qualità di scari appunto, i materiali di base che egli utilizza nei suoi lavori, e come corollario l’inquinamento che qui, non dichiaratamente, viene evocato. Pero Racchi rappresenta uno degli artisti, rari ed anomali, che fanno del proprio lavoro un momento di ricerca compositiva di un mondo in via di estinzione, dove la natura naturata, la natura naturans, rischia di essere, e spesso lo è, sopraffatta dal dilagare della natura artificiale (basti pensare alla possibilità di sciare tutto l’anno a Dubai, dentro una bolla di vetro a -4 °C mentre fuori non sono mai meno di 28°C). La mia lettura dell’opera dell’artista vede il suo tentativo come quello di chi cerca di comunicare una inquietudine di fondo sul futuro dell’umanità, facendo uso della sua indubbia manualità ed intelligenza. Giostrando fra gioco e denuncia di disagio, tra manipolazioni genetiche che fanno vedere il lussureggiante mondo vegetale presente nelle opere come se le piante fossero degli organismi cibernetici, forse dei cyborg naturali, utilizzando tecniche da découpage e di assemblaggio molto raffinate, con una scelta originale dei materiali utilizzati e dei metodi di assemblaggio, Racchi appare sempre più artista di rilievo, sotto molti aspetti ardito innovatore e certo del tutto originale sulla scena dell’arte italiana, con una sua poetica specifica che risponde ad esigenze personalissime di strutturazioni e di modulazioni quasi ritmiche, musicali. Esiste in Racchi una curiosità da archeologo del futuro con una propensione per le forme biologiche, con ricerche paleoneurologiche. Le sue opere richiamano alla mente “La terra desolata” di T. S. Eliot e le figure di Wifredo Lam. Oggi memoria, capacità e velocità di elaborazione, varietà di risultati sono sempre più affidati a macchine, agli elaboratori elettronici che ormai portiamo in tasca, e che operano con una velocità tale da rendere sempre più deboli i ricordi della natura, e rafforzando per contro i segni dell’artificiale che può divenire, attraverso forme raffinate di rendering, più vero del vero trasformando il virtuale sempre più in reale, l’artificiale al naturale, rendendo il robot di Isaac Asimov più umano di quanto lui stesso avesse immaginato, rendendo tutto questo più accettabile, perché più riconoscibile e forse per questo Piero Racchi si inserisce in questo spazio di sensibilità, ponendosi da un lato sul destino dell’umanità (da dove veniamo? Dove andiamo?) e da un altro cercando un’armonia quotidiana, allarmante e preveggente oltre che smitizzante e liberatoria. Artisticamente Racchi, non per carattere, è autore tranquillamente isolato, appassionato cultore del proprio immaginario che ruota attorno ai prodotti dell’uomo, non dimenticando di viaggiare dentro all’uomo, quello nuovo, homus meccanicus, tecnologico e robotizzato rappresentato appunto attraverso gli scarti della produzione industriale. La reificazione è rappresentata da Racchi con ironia, con divertimento e con nostalgia, curando con particolare attenzione gli aspetti formali delle sue creazioni, perché di creazioni appunto si tratta, dalle scelte dei materiali ai colori, dai segni alle intersezioni, portando avanti un dialogo con la realtà, con l’attualità, in una denuncia sociale che è volontà liberatoria che integra la coscienza collettiva con la capacità creativa dell’artista.
Manlio Gaddi

Le sculture di Piero Racchi compongono una sorta di microcosmo, come strutture portanti di un mondo naturale, assoluto o simbolico, sia sul versante operativo sia su quello morfologico. A questo artista più che la realtà interessa la forma, dimostrando ancora una volta che l’attuale riflessione sull’astrazione non è una pratica esclusivamente pittorica, vedi Judd. Serra e Lewitt, scultori che negli anni sessanta hanno dominato il panorama della scultura informale. Un artista come Piero Racchi percepisce che i suoi lavori non sono semplici fatti materiali, resistenti all’interpretazione linguistica dell’astrazione, ma interagiscono tra la cultura del reale e la cultura del sogno. L’impegno dello scultore è molto più grande che nella pittura. Lo scultore porta una responsabilità più grave, perché mentre la pittura è finzione, la scultura è oggetto e comprende in sé il potere di presenza, un peso di realtà che manca alla pittura. Uno scultore che oggi abbia l’ardire di essere astratto naviga fra gli scogli dell’idealismo, sa di andare incontro ad un mare in tempesta, di sfidare le alte onde delle incomprensioni, anche se molti di loro si nascondono dietro le installazioni, come se si difendessero dietro un altare. Piero Racchi ha scelto la via più difficile, ma la sua audacia è stata premiata dai risultati che appaiono ai nostra occhi, illuminazioni idolatriche, icone fantastiche che irradiano luce metallica, muschi, licheni, fantasia, cultura. La rinascita della scultura informale e astratta riflette l’estasi del post-strutturalismo e la serietà e l’intensità emotiva delle opere di Racchi assegnano a questo artista un posto di primo piano nel mondo della scultura moderna. Il riferimento al reale non impedisce all’artista di esprimersi attraverso immagini che mascherano la realtà e lui interpreta alla perfezione lo spirito del tempo, dando una nuova identità a immagini note, creando dal niente dei “gioielli”. Il rigore che le opere di questo artista possiedono non è il rigore della ragione quanto invece quello dell’emozione. Mentre non c’è più nulla da scoprire nella figurazione, la figura astratta riesce ad emozionarci se non altro per il fatto che dobbiamo “sforzarci” a comprenderne il significato, che non è mai univoco, ma cambia da un individuo all’altro ed è addirittura in relazione con lo stato d’animo dell’osservatore stesso. Senza dubbio, nell’esecuzione delle sue scultura, racchi opera in conformità a determinate leggi: forma, superficie spazio e sensazioni appartengono inequivocabilmente all’artista, in una maniera che va oltre lo stile. Questi lavori determinano il periodo attuale, proprio perché si definiscono da soli, essendo questa la condizione dell’autonomia che la scultura e l’arte in genere hanno raggiunto.
Eraldo Di Vita


La materia solidificata attraverso il colore è un moto vulvanico che imprigiona il tempo ed in qualche modo lo uniforma avvicinando organicità e durezza. Nei lavori di Racchi gli estremi si toccano. Vegetazione e rifiuti plastici subiscono la forma dell’alfabeto cromatico fino a diventare indinstinguibili parti del medesimo lavoro. Il tempo in Racchi è costruzione identitaria che trasforma l’oggetto casuale, già strutturato, in nuovo elemento linguistico da far appartenere all’opera. E’ così che l’arte con leggerezza trasforma l’immaginazione in potere.
Fiorenzo Mascagna

Piero Racchi, artista di grande capacità immaginativa e attento osservatore della natura, esplora da anni le infinite possibilità della tridimensionalità, compiendo una minuziosa ricerca plastica ed un'indagine cromatica giungendo ad una sua personale forma di scultura-assemblage dove i due aspetti sono tanto intimamente connessi da risultare inscindibili.
                                                                                                                                                                                                                                                                                                              Marta Bocconi

Anche per chi ha una grande dimestichezza con la storia dell’arte moderna e contemporanea, anche per chi ha frequentato mostre, gallerie e cataloghi,anche per chi non è facile a stupori di fronte a tecniche e impostazioni inusuali, anche per chi è uso a interrogarsi costantemente sulle possibilità che questa epoca ci consente; per tutti questi Piero Racchi è ancora capace di suscitare un sussulto, una riflessione immediata.  Il suo lavoro ti prende allo stomaco prima ancora che tu possa iniziare una riflessione; la sua opera è cosi forte, potente, distruttiva che reggerne il colpo è imbarazzante e straniante. Se il fine del poeta è la meraviglia, Racchi interpreta e risolve questo dettato con una semplicità e una naturalezza disarmante.   Visionaria, immaginifica e straordinariamente sorprendente l’opera di Racchi ha trovato una indubitabile concretezza formale, indispensabile per dominare quel magma di creatività che sgorga da una personalità naturalistica e iper-tecnologica, superando così, con uno stile innovativo e personalissimo, una evidente dicotomia. Scrive Sandro Serradifalco “Racchi dà sfogo alla sua fantasia realizzando opere di ricercata fattura  non limitandosi alla figurazione ma appropriandosi della materia dandole  ruoli tra i più disparati”. E in questa funzione di demiurgo, di forgiatore che si sviluppa e realizza il concetto mitico dell’artista-creatore, di colui che modifica il dato, il consueto, la realtà come ci è stata proposta, per indicarci una svolta, una deviazione che ci conduce a un nuovo modo di vedere il mondo. Ci accompagna pertanto sulla soglia di un universo sconosciuto, impensabile. Citando ancora S. Serradifalco “Racchi è un artista poderoso, valido per la grande ricerca compiuta durante gli anni per investigare sull’uomo e sul mondo senza mai porsi limiti” In effetti nel gioco creativo l’artista non vuole confini predeterminati.
E lo rivela con opere tridimensionali o a tutto tondo con le quali il fruitore può dialogare proficuamente e interagire, immerso in paesaggi dove la natura, una natura già contaminata, si sforza di riconquistare il suo ruolo primario, apparentemente sconfitta da una tecnologia disumana, immobile, spenta, plastificata e senza vita.  Racchi non dà risposte, ci pone l’eterno interrogativo: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo; nel suo ruolo di artista ci sottopone una riflessione, squarcia il velo di consuetudine che ci avvolge e ci mostra una possibilità. Per il resto tocca a noi.
                                                                                                                          V. Baretto

Coesa tra raffigurazione simbolica e virtuosismo narrativo, la pittura di Piero Racchi compensa una volontà costruttiva sofisticata ed al tempo stesso fortemente immaginifica. Le sue tematiche, sospese tre le influenze culturali passate ed esigenze fruitive contemporanee, sono dimostrazione di un equilibrato senso compositivo.

  
L’attività compositiva di Piero Racchi lascia intendere degli spasmodici proponimenti sperimentali connessi alla volontà assemblatrice tra la classicità plastica e contemporaneità espressiva.
Assistiamo dunque, a tale possibile contrasto, il quale grazie ad una sapiente valorizzazione dell’elemento simbolico diviene esempio degnissimo d’eccelsa simbiosi costruttiva.
L’attingere dal quotidiano diviene occasione di rivisitazione formale di un modus operandi superlativo. Le opere di Piero Racchi attraggono sia per l’evanescente briosità cromatica che per l’allegorico messaggio in esse contenute.
Un visitare la nostra oggettività attraverso gli occhi e l’animo di un artista poliedrico e superlativamente sagace.

Il maestro Piero Racchi dà libero sfogo alla sua fantasia realizzando opere di ricercata fattura, non limitandosi alla figurazione, si appropria della materia dandole ruoli tra i più disparati. Piero è un artista poderoso, valido per la grande ricerca compiuta durante gli anni per investigare sul mondo e sull’uomo senza mai porsi limiti. Anche la scelta delle cromie e della luce è appropriata e adeguata alle sue opere che ci appaiono come eterei testimoni di un flusso di idee che non ha né termine né confine.

Sandro Serradifalco.
ANNO SCRITTO DI LUI:
Vittorio Sgarbi
Paolo Levi
Eraldo Di Vita
Sandro Serradifalco
Carlo Prosperi
Gianni Notti
Riccardo Brondolo
Giancarlo Polizzari
Arturo Vercellino
Egle Migliardi
Vilma Torselli
Vittorio Baretto
Silvia Ferrara
Marta Boccone
Manlio Gaddi
Fiorenzo Mascagna
Chiara Salanti
Alfredo Pellegrini
Serena Carlino

PUBBLICAZIONI
MUSEO LEVI. Artista da museo
ITALIANI. Di Vittorio Sgarbi
ARTISTA DELL'ANNO 2019. Art now
INTERNATIONAL WEB MAGAZINE  miART. A cura di Sandro Serradifalco
Catalogo INTUIZIONI ESPRESSIONI. Primo premio giuria tecnica 2011
Catalogo INTUIZIONI ESPRESSIONI. Primo premio giuria tecnica 2014
ARTEXPO  VENEZIA 2012  Curatore Paolo Dogà
I GRANDI DELL'ARTE CONTEMPORANEA ITALIANA
"TOP 20" Critica D'autore. A cura del critico  Eraldo Di Vita.
BOE' Vernissage. A cura di Sandro Serradifalco.
Euroarte
Catalogo delle quotazioni 2009-2010-2011
Catalogo VERNICE art fair 2009
Catalogo Trofeo di capodanno 2009 Beinasco. (TO) Premio trofeo per miglior opera astratta.
Catalogo un segno nel tempo. La Spadarina. Piacenza.
Rivista d’arte Star Vip
SCULTURE AD ACQUI TERME. A cura di Ivana Mulatero
PERCORSI DI SCULTURE. “PROSPETTIVE SULLA MEMORIA” Acqui Terme

GALLERIE DI RIFERIMENTO:
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0144 322706 
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GALLERIA PISARRO
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GALLERIA GART
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380 5174332
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AL51LAB. Laboratorio di pittura Spazio espositivo.
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Cell. 3337211525.
E-Mail: racchi.p@gmail.com
http: piero----racchi.blogspot.com/

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